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 Il libro può diventare un servizio bancario? O, in altri termini, si può vendere in banca?

Pensiamo per un momento al libro, oggetto di desiderio e libertà, come a un investimento. Un mattone che ci permette di costruire le fondamenta della nostra vita interiore e di quella pubblica, composta da relazioni sociali e interazioni di diverso genere.

Un’esistenza che si forma sulle parole, disposte l’una accanto all’altra o in ordine sparso, una sull’altra oppure distanti, tutte però unite a rete, imprimendo ai nostri pensieri e al nostro agire la forza e l’intensità che ci permettono di vivere nella sfera sociale.

Dunque, il libro è un investimento. Su questo punto i pareri concordi potrebbero essere molti, alimentati dalle rispettive esperienze e competenze. Un libro, che sia pessimo o eccellente, è il tassello mancante, ogni volta nuovo, che ci serve per crescere. Un investimento che nell’era ‘ipereconomica’ diventa marketing.

Alimentare la lettura e il concetto del risparmio, del sostegno e del guadagno, potrebbe essere questo il profilo di una nuova mission che i diversi soggetti economici potrebbero prendere come riferimento. Un connubio capace di far storcere il naso ai puristi, ma che nella quotidianità del nostro vissuto invece troverebbe del terreno fertile.

Dunque, tornando al quesito iniziale, perché allora non vendere i libri in banca? È probabile che sia stato proprio questo l’interrogativo che si sono posti, da un lato, la Banca popolare dell'Emilia Romagna e, dall’altro, il gruppo Giunti Editore. Tant’è che nei giorni scorsi è stato presentato dai due enti l’ampliamento di un progetto innovativo che consente alle edizioni Giunti di sbarcare nelle ben 235 filiali che l’istituto bancario ha lungo tutta la Penisola.


L’idea sarebbe quella di coniugare l’investimento ‘materiale’, quello circoscritto in termini economici e monetari, con l’investimento ‘intellettuale’, vale a dire quello legato alla lettura e alla fruizione del libro come veicolo della stessa.

Ecco quindi che in ciascuna filiale della Banca popolare dell'Emilia Romagna i clienti/lettori potranno ingannare l’attesa spulciando tra gli scaffali di Giunti Editore, cercando il titolo più consono alle proprie esigenze/aspettative/emozioni/condizioni e acquistandolo poi allo sportello presso il quale finalmente verranno accolti, beneficiando altresì di uno sconto del 15% sul prezzo di copertina.

Che si sia al cospetto di una chiara strategia di vendita è lapalissiano. Nessuno è tanto ingenuo da credere che due gruppi finanziari così forti si uniscano per mere aspirazioni culturali!! Tuttavia il progetto presenta il libro sotto una nuova veste indicando una fruibilità differente e magari arrivando anche a quelle persone che in libreria non ci mettono piede.


Quindi la mia conclusione è che, sì, un libro si può vendere in banca. Si può vendere alla stazione. Si può vendere al bar sotto casa. L’importante è che il libro venduto venga letto da qualcuno, che le parole messe nero su bianco e ‘mercificate’ in luoghi alternativi rispetto a quelli tradizionali divengano semi per la crescita a prescindere dalle modalità di semina.

Se tutto questo accade, allora un libro si può vendere… ovunque!






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Quanto valgono le parole

E che peso hanno lettere e consonanti che costituiscono proprio la materia prima sulla quale le parole stesse vengono plasmate?


 Ce lo siamo chiesti un sacco di volte, spesso rimanendo a bocca aperta rispetto alla vastità delle risposte che a questo quesito potevamo dare. 
Una possibile via risolutrice all’interrogativo può essere individuata nei diversi modi d’intendere le ‘parole’, la ‘scrittura’ e la ‘lettura’, indicate non come definizioni poste a limite di ben determinate categorie di azioni, bensì come possibilità, come creazione in potenza, come quell’interpretazione della realtà che non può in alcun modo intendersi univoca. Quel che abbiamo capito, però, in questi ultimi giorni, è che con le parole anche la politica può fare giochi pericolosi e ce lo ha dimostrato con la vicenda del ‘bonus libri’ che è divenuto, a sorpresa, ‘bonus librai’, garantendo un’agevolazione non più ai lettori, bensì a chi i libri li vende.

Le parole imprimono una nuova forma alla realtà, insomma. Hanno questo potere che finisce con l’assumere un valore molto più importante di un qualsiasi semplice gesto. 

Le parole cambiano direzione, plasmano la società, hanno la forza di decidere, di imporre, di liberare e di imprigionare

Le parole sono atti vigorosi che non lasciano scampo, emozionano e sopprimono, pur trasformandosi rimangono uguali o finiscono per mutare anche se a vederle non hanno subito alcun cambiamento. Le parole alimentano speranze e, con un tratto di penna, le annientano. Le parole fanno cultura, ma implicano anche dei doveri

E per un lettore le parole sono l’ancora di salvezza in mezzo al mare in tempesta della propria esistenza. Per un lettore ai tempi della crisi economica le parole rappresentano il coraggio, la fuga, la libertà e la speranza. 

Ecco perché, tra le tante misure legislative che hanno fatto discutere gli italiani, quella del ‘bonus libri’ aveva destato l’interesse di quanti, come noi, trovano in un libro l’alternativa possibile. Sul finire dell’anno passato si era infatti palesata l’eventualità che gli acquisti di libri potessero essere scaricati seguendo all’incirca le medesime modalità applicate all’acquisto di medicinali. Proprio lo scorso 23 dicembre veniva pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto ‘Destinazione Italia’ (n. 145/2013) tra le cui disposizioni contemplava altresì misure volte al sostegno della lettura e dell’acquisto dei libri cartacei sia per motivi di studio che per mero diletto. Veniva pertanto prevista una detrazione fiscale del 19% sugli acquisti di libri muniti di codice isbn effettuati nel corso dell'anno solare; l’importo massimo detraibile era stato posto a duemila euro, dei quali metà avrebbe riguardato i testi scolastici ed universitari e l’altra metà tutti gli altri tipi di pubblicazione. La notizia, in un Paese che stenta ad arrivare a fine mese e nel quale gran parte della gente non ha neanche un libro in casa, era stata accolta con grande favore, nonostante risultasse appunto inaspettata. 

È bastato un colpo di spugna, però, affinché all’improvviso cambiasse e le grandi attese dei pochi lettori della Penisola si infrangessero.


Tant’è che, con un abile gioco di parole, è stato accolto un emendamento che è andato a sostituire il riferimento alle «persone fisiche e giuridiche» con quello agli «esercizi commerciali che effettuano la vendita di libri al dettaglio». Non è forse questo un modo per imprimere un cambiamento drastico ad aspettative e speranze usando la mera forza delle parole? 

Et voilà, con una semplice vocale l’agevolazione finisce per riguardare solo i librai, non più invece chi compra i libri e li legge. Con buona pace di tutti coloro che a Natale avevano gioito per la grande novità!

E non esisterà più neanche un ‘bonus’ per incentivare la lettura e l’acquisto dei libri per ‘tutti’!! In quanto le soglie massime detraibili per pubblicazioni varie e per testi scolastici, poste entrambe a mille euro, sono state sostituite da un cosiddetto ‘buono’ fruibile in maniera esclusiva da studenti di scuole pubbliche o parificate. Si tratterà di un ticket con lo sconto del 19% firmato dal preside di riferimento e spendibile soltanto presso quelle librerie che aderiranno alla proposta dello Stato. 

Ecco, con le parole si cresce e si diventa liberi. Bisogna però saperle usare, perché quelle medesime parole hanno al contempo il potere di tirarci indietro, limitando il potenziale di crescita che esse stesse avevano alimentato in precedenza.

Unknown


Benvenuti, cari amici lettori!



Questo blog nasce dal desiderio di mettere nero su bianco le nostre esperienze con quanto di più semplice e caro ci offre la quotidianità: le parole.
Fonte: it.123rf.com


Le parole per leggere, quelle da leggere. Le parole da scrivere e per scrivere. Ma anche la parole per sapere, quelle per conoscere e conoscersi, e quelle per interpretare


Le parole per ‘fare’, potremmo sintetizzare così adottando, senza presunzione, l’assunto di John L. Austin


Il nostro blog, che auspichiamo possa divenire anche vostro, intende pertanto presentarsi a mo’ di orto nel quale alimentare e far crescere le parole che incontriamo tutti i giorni, coltivandole con cura e offrendole a quanti di voi si dimostrino interessati ad accoglierle.
Fonte: it.123rf.com



Grazie per essere passati da queste parti!






Aspettiamo il vostro ritorno!






Maria Francesca e Daniela Lucia

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Elizabeth Gaskell
Cranford


In primo luogo, le Amazzoni sono le padrone di Cranford; le affittuarie di tutte le case al disopra di un certo livello sono donne. […] In breve, qualsiasi cosa accada degli uomini, a Cranford non ci sono”. 



Fonte: BBC
Così Cranford è la storia di una comunità. La storia di un piccolo villaggio che, a lungo andare, si trasforma in un affresco di vicende familiari. Domestiche. ElizabethGaskell prende in mano la penna e, come se fosse il più abile dei paesaggisti, tratteggia fin nelle più particolari minuzie la quotidianità della piccola cittadina inglese dal nome fittizio dove vive, si confida, piange e ride un gruppetto di anziane signore, amiche per necessità, affetto e buone maniere.


Dopo aver dato alle stampe, in forma anonima, MaryBarton, la Gaskell si dedica alla stesura di racconti, destinati per lo più alle uscite periodiche curate da Charles Dickens, del quale era da poco divenuta amica e, per certi versi, collaboratrice. È proprio tra questi scritti che inizia a germogliare l’idea di mettere insieme gli aneddoti e le vicende delle signore di Cranford.


Pensato e pubblicato a puntate per la rivista diretta d
Fonte: Wikipedia
all’amico scrittore, il progetto di Cranford venne più volte interrotto in corso d’opera a causa della stesura di Ruth, un altro importante romanzo della prolifera scrittrice. Tant’è che le continue interruzioni provocarono non pochi problemi con lo stesso Dickens, che da parte sua aveva bisogno delle nuove puntate del racconto per chiudere i numeri della ‘Household Words’. Tuttavia, nel 1853, sia Ruth che Cranford videro la luce per i tipi dell’editore Chapman & Hall. Due storie parallele eppure diametralmente opposte. Se nel primo infatti la Gaskell si sofferma sulle vicende di una giovane donna sedotta e abbandonata che si incammina sulla via della redenzione, nel secondo è la quotidianità semplice e priva di pretese a prendere per sé tutta la scena. 


Cranford si presenta alla stregua di un album di ricordi al quale attinge la giovane narratrice Mary Smith, che dà voce alla sapiente penna dell’autrice. La ragazza racconta ai lettori gli eventi singolari che hanno caratterizzato le quiete esistenze delle sue anziane amiche. 


Il romanzo scorre grazie a uno stile colloquiale, come quello che si potrebbe cogliere dalle lettere di una lontana parente che ci descrive le sue avventure giornaliere. Mary Smith mette in linea (non necessariamente cronologica) l’insieme di perle esilaranti e di ironici dettagli, incorniciando la narrazione con sapiente e puntuale arguzia


Il variopinto racconto snocciola in tante piccole sequenze la vita quotidiana del villaggio di sole donne, o quasi, dove la rispettabilità e il decoro rappresentano la ragione prima e il fine ultimo di ogni iniziativa, pur non essendo in alcun modo barattabili con l’altruismo, la gentilezza e l’affetto. 


Mi sorrise tra le lacrime, e avrebbe voluto che vedessi solo il sorriso, non le lacrime”.

Fonte: www.telegraph.co.uk
La forte amicizia tra rigide vedove e anziane zitelle diventa così il fertile terreno nel quale attecchiscono i diversi episodi riferiti con piglio ironico da una narrazione complice e benevolente. La giovane e vigile osservatrice non si lascia sfuggire nulla di quanto accade nella cara Cranford, annotandone sia le debolezze che (soprattutto) i sentimenti di buon cuore ancorati in maniera salda alle più comuni abitudini delle signorine Jenkyns, di Pole, dell’Onorevole Jamieson, della signora Fitz-Adam, di Lady Glenmire e delle figlie del Capitano Brown, le simpatiche abitanti della cittadina. 


Il lettore si troverà quindi a chiedersi quanto debba durare una visita gradevole. ‘Mai più di un quarto d’ora’, gli verrà risposto dalle simpatiche signore di Cranford. E come fare a regolarsi? “Devi continuare a pensarci, mia cara, e fare in modo di non dimenticartene durante la conversazione”. Un quarto d’ora che è destinato quasi sempre a dilatarsi, nonostante lo sguardo fisso sulle lancette dell’orologio e il timore costante di essersi fermati un po’ più a lungo del dovuto. Eppure è questo quel che capita quanto si entra in una comunità di sole donne, gli uomini sono relegati dietro un velo di tacito disprezzo.
 “Gli uomini sono uomini. Ogni figlio di mamma vuole esser preso per un incrocio tra Sansone e Salomone, troppo forte per prenderle e troppo saggio per cascarci. Se ci fate caso, hanno sempre previsto tutto, anche se poi non ti avvertono mai che sta per accadere qualcosa; mio padre era un uomo, e quel sesso lo conosco piuttosto bene”. 
In questa comunità anche il matrimonio fa paura, anche se poi si finisce col rimpiangere di non averlo mai contratto. E si ha paura della povertà, alla quale solo l’affetto e la generosità degli amici possono porre un argine.
Fonte: The Guardian


Il racconto si sviluppa in maniera veloce, arrivando ben presto alla parola fine che lascia dietro di sé quella sensazione mista tra abbandono e serenità che si prova ogniqualvolta ci separiamo dalle persone a cui vogliamo bene.


Arrivederci a Cranford, dunque! Affinché ogni nuova lettura abbia il sapore del ritorno.
Unknown

 Marina Cvetaeva
Racconto di mia madre

I molti volti di Marina Cvetaeva e le parole ricercate sono il suo unico strumento. Il solo denaro del quale è provvista. 

Nel volumetto Racconto di mia madre (comprensivo del racconto omonimo e de Il fidanzato) il lettore non troverà i crudi e soavi testi poetici ai quali l’artista russa ci ha abituati eppure, come avviene coi suoi indimenticabili versi, anche in questo caso si può avere la fortuna di scorgere il sublime incanto della ricerca e dell’abbandono, dell’interrogativo sospeso che insegue una risposta. È l’approssimazione di un tempo sconvolto dagli eventi che si esprime per mezzo di un’esigenza di scrivere

Marina Cvetaeva sfiora la parole, limandole e contraendole, per giungere dritte allo stomaco di chi legge. 


Scritti in francese, non in russo, i due racconti finora inediti nel nostro Paese ci mostrano il profondo e a tratti conflittuale rapporto tra Musja (Marina) e Anja, sua sorella minore. Già dalla scelta linguistica possiamo scorgere un desiderio di allontanare da sé dal punto di vista affettivo e da quello temporale eventi di una vita passata, ormai sepolta e inaccessibile se non con il ricordo
 
Il primo racconto, dal titolo Racconto di mia madre, traccia senza orpelli linguistici il conflitto che da sempre alberga nei reconditi meandri dell’amore fraterno. Il dubbio del prescelto, del favorito sul quale si riversa quella millesima parte in più dell’affetto materno. Marina ci racconta di due sorelle, di una scelta e di una Madre. Di sua madre, ma anche di lei stessa che la fame costrinse a scegliere tra la figlia Ariadna e la figlia Irina. E scelse, lasciandosi dietro una bambina denutrita, debole, incapace di affrontare le dure prove dell’esistenza. Nessuna madre preserva dalla morte un figlio, abbandonandovi l’altro. Questo è un racconto intriso dal sapore del ricordo, della paura di sapere, dell’angoscia del rimorso. “Voglio che tu sia eternamente infelice per aver ‘scelto’”. Tali sono le parole che il brigante urla alla Madre del racconto, una madre che opta per la ‘non scelta’ ché non vuole condannare a morte nessuna delle sue figlie. Ma è anche una voce che urla dentro Marina, un grido che fingendo di rimproverare la Madre, rimprovera lei per quella bambina morta di stenti. Ariadna o Irina? Musja o Anja? Quale cero è bruciato per primo? Sette anni dopo la stesura di questo racconto, provata dalla vita e privata della propria famiglia, Marina Cvataeva decide di spegnere la fiamma del proprio cero, dicendo addio al mondo, all’esistenza e al peso immane della propria memoria. 


Fonte: Wikipedia
Posto nel volume dopo il racconto sulla madre, Il fidanzato in realtà è uscito due anni prima, nel 1933 sul quotidiano parigino Le dernières nouvelles. Anche qui c’è una scelta non compiuta. Il protagonista è Tolia, sedicente spasimante delle due figlie minori del dottor Cvetaev. Ancora Anja e Musja. In un perpetuo confronto agli occhi del mondo. Un confronto che però qui perde i toni del timore, acquisendo quelli ironici della burla nei riguardi di un carattere pieno di sé eppure vuoto in maniera insanabile, capace di passare da una sorella all’altra senza mai conoscere davvero l’amore. In questo racconto il lettore ritrova lo stile veloce, come se l’incombenza di mettere nero su bianco, di fissare il ricordo del passato nell’eternità, fosse più forte dell’atto stesso di vivere. 


Nel volumetto si trovano quindi dei racconti idilliaci, dove la creazione artistica si scontra con la crudezza della quotidianità, quindi di un insieme di scelte e decisioni che influenzano il futuro di ciascuno e che, per quanto gaie od opprimenti, non possono essere dimenticate, ma continuano a tracciare il percorso a venire.

In definitiva, questi due racconti sono finestre aperte su una vita passata che narra, senza giudicare, le origini di un presente dal quale ‘il trascorso’ è irrimediabilmente distante. 





Unknown
 Il telefono cellulare ci ha cambiato la vita. Si tratta di una frase inflazionata, di un luogo comune, di un’affermazione ormai senza tempo; e forse proprio per tutte e tre queste ragioni si tratta inevitabilmente di una grande verità. E se agli albori della sua diffusione chi aveva il cellulare ne faceva un uso più conforme alle proprie necessità, oggi il cellulare, o meglio, lo smartphone, è un compagno irrinunciabile nelle nostre giornate. Abbiamo ormai una necessità quasi fisiologica di portarci dietro quella sorta di ‘mattonella’ digitale, con i suoi colori e le sue funzionalità, con le applicazioni più svariate e variegate e il touch screen d’ordinanza. 

Privarci del cellulare avrebbe oggi la valenza di un ‘fine pena mai’ imposto all’innocente. Il cellulare è estensione del nostro corpo, nonché mezzo espressivo della nostra personalità. 

Insomma, toglieteci tutto, ma non il nostro smartphone.

Fonte: it.123rf.com
E lo smartphone, questa nuova creatura nata in seno alla dinastia dei cellulari, è lo strumento che ci permette di accedere all’era social. Senza il cellulare iperconnesso e iperattivo siamo tagliati fuori da un mondo che vive in parallelo a quello fisico, un universo che fa la storia senza né passato né futuro, avvalendosi solo di un presente multitasking.

L’invasione coatta dei cellulari di ultima produzione ha mutato in maniera profonda gli stili di vita di giovani e meno giovani, in un mondo social dove le diverse età si appiattiscono sull’unica e complessiva generazione virtuale.

 Viviamo di network, di pixel e di wi-fi. Tutto il resto è inutile, noioso, non crea empatia né emozione. 

Perderlo o perdersi? This is the question.

Perdere il telefono, dimenticare il proprio smartphone, uscire di casa senza la connessione col mondo è il più grave dramma che più vivere l’uomo medio contemporaneo, sia esso russo, italiano o giapponese. Non esiste crisi, recessione o calo del potere d’acquisto che possa fermare la generazione social dal correre nel proprio store di fiducia per entrare in possesso dell’ultimo modello android o iOS. La mela smangiucchiata e il goffo omino verde rappresentano ormai i desideri più profondi della società attuale, ne disegnano e realizzano i sogni, rendono possibili le fantasie più disparate e sconfiggono la solitudine. Non v’è nulla, nelle vecchie tradizioni di entertainment, in grado di eguagliare il livello di appagamento che solo essi generano. 
Fonte: plpnetwork.com


Senza la nostra fedele 'tavoletta' luminosa siamo noi a perderci, a rimanere soli, gettati in una società che ormai non conosciamo più 'davvero'  perché siamo abituati a guardarla solo attraverso i megapixel di uno schermo antropomorfizzato. Dimentichi che la vita procede inesorabile, anche se non abbiamo fatto in tempo a 'condividerne' ogni singolo frammento.
Unknown


Fonte: Wikipedia

Verrebbe da chiedersi, parafrasando Calvino, cosa sia un classico. E sempre prendendo come riferimento la spiegazione dello scrittore italiano, potremmo estrarre dal cilindro delle risposte una delle sue definizioni e affermare con sicurezza che in classico è ‘un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire’. Una storia che non si è ancora compiuta, che vive in altre storie e che torna a vivere anche con altre parole, abbracciando nuove ere e inserendosi in contesti che l’autore non avrebbe mai immaginato. In un certo senso è proprio ciò che sta accadendo al ‘Macbeth’ di William Shakespeare, che in occasione delle celebrazioni per i quattrocento anni dalla morte dell’autore è stato affidato allo scrittore norvegese Jo Nesbø al fine di riadattarlo in chiave moderna.


Fonte: Wikipedia
Venendo dal successo del suo ultimo romanzo ‘Polizia’, che ha riscosso un consenso planetario con 20 milioni di copie vendute in ben quaranta Paesi, lo scrittore norvegese si è dichiarato pronto ad affrontare la sfida. Macbeth è una storia che mi sta molto a cuore perché affronta temi con cui ho avuto a che fare fin da quando ho iniziato a scrivere. C'è un personaggio principale che ha il codice morale e la mente corrotta, la forza personale e la debolezza emotiva, l'ambizione e i dubbi di andare in entrambe le direzioni. È un thriller sulla lotta per il potere, un noir cupo, che permette di indagare la mente di un paranoico”, ha affermato Nesbø illustrando il profilo del personaggio e individuando nella sua complessità dei temi comuni alla tradizione noir


Ben presto, dunque, avremo modo di leggere il Bardo in veste noir!


Il lavoro di Nesbø si inserisce nel programma tracciato dalla Hogarth Shakespeare, l’impresa editoriale incaricata di valorizzare le opere del drammaturgo inglese a quattro secoli dalla sua dipartita. È stato quindi messo in cantiere un progetto insolito che ci presenterà alcune delle tragedie shakespeariane in adattamenti fuori dal comune, sui quali si farà sentire non solo la mano possente e vigorosa del padre naturale, quanto anche quella creativa e moderna dei genitori adottivi scovati nel panorama letterario internazionale. 


Fonte: Wikipedia
A metter mano su questi testi quasi sacri saranno degli autori di fama mondiale che, ciascuno per il proprio genere, scandaglieranno le parole, le ambientazioni e i dialoghi magistralmente allestiti dal Bardo ben quattro secoli orsono e li adatteranno al contesto attuale, tentando tuttavia di rimanere quanto più fedeli alla vocazione originale. Tant’è che oltre a Jo Nesbø che opererà sul ‘Macbeth’, la Hogarth Shakespeare ha acquisito nella propria scuderia di riadattatori shakespeariani anche Margaret Atwood per la riscrittura de 'La tempesta', HowardJacobson che interverrà su Il mercantedi Venezia', e Jeanette Winterson già a lavoro su 'Racconto d'inverno'


Il progetto è ambizioso, ma le ‘penne’ assoldate fanno sperare in una riuscita quanto più soddisfacente, senza dimenticare che la materia prima sulla quale questi autori dovranno operare è esemplare della migliore qualità.

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